L’oro perché ha valore

L’oro ha valore perché è assoluta materialità e assoluta immaterialità al tempo stesso. Un bel paradosso. Che l’oro valga perché è materia nobile è cosa ben nota. Settantanovesimo elemento della tavola periodica degli elementi di Mendeleev, estratto con fatiche immani dalle viscere della terra, è un metallo raro e incorruttibile nel tempo. Forse l’anello o la fede che state portando al dito è fatta di oro estratto duemila anni fa e fuso e rifuso nel tempo. Rarità e incorruttibilità ne giustificano il valore.

Ma ha anche valore per la sua immaterialità. Perché è un simbolo di sacralità e ricchezza. Perché garantisce nell’immaginario la moneta in circolazione (nell’immaginario perché le banconote non sono più convertibili). E perché essendo raro, chi lo detiene in grandi quantità non può venderlo senza farne crollare il prezzo.

Il paradosso dell’oro è raccontato in un istruttivo e agile libretto da Salvatore Rossi. Essendo, l’autore, il Direttore Generale della Banca d’Italia, l’oro in quanto materia lo conosce meglio anche dei più grandi orafi o tentati alchimisti. È il custode, infatti, con gli altri membri del Direttorio, delle riserve auree della nostra Banca Centrale, 2.452 tonnellate, di cui la metà circa nei forzieri di Palazzo Koch a Roma e l’altra metà sparsa per i caveau di mezzo mondo. Stiamo parlando della quarta riserva d’oro al mondo, dopo la Bundesbank tedesca, la Federal Reserve americana e il Fondo Monetario Internazionale.

Dal caveau della Banca d’Italia parte infatti la narrazione di Rossi. Un luogo inaccessibile, circondato da fossati inattaccabili dalla più accanita banca del buco, a cui si arriva attraverso un’infinità di botole, scale e scalette e porte blindate, per aprire le quali ci vogliono molte chiavi, custodite ciascuna da persone di cui solo Rossi e pochi altri conoscono l’identità. Negli inferi di palazzo Koch, aperta l’ennesima botola, ci sono infine le stanze del tesoro. Scaffali e scaffali e pile di lingotti ovunque. Lingotti di forme diverse, memoria di tutta la storia del ventesimo secolo: americani, sovietici con la falce e il martello e tedeschi con la svastica. Accumulati come riserve valutarie grazie ai surplus della nostra bilancia commerciale e per acquisti deliberati della Banca Centrale, fino ai tempi di Guido Carli nel 1973.

Ogni lingotto potrebbe raccontare una storia diversa e forse appassionante. Certamente quelli con la svastica. L’oro già italiano, trafugato dai tedeschi nel 1943 e in buona parte, dopo mille traversie degne del film Monuments Men (il recupero dei tesori d’arte francesi rubati dai nazisti), restituito dopo la guerra.

L’oro delle banche centrali e il suo ruolo nei sistemi monetari è quello che meglio racchiude la sintesi tra materialità e immaterialità. Per quel che si sa, l’oro è stato coniato in moneta per la prima volta in Lidia nel 550 a.c. Essendo non semplice da trasportare, in epoca moderna si sono sviluppate le ben più pratiche banconote. Sostanzialmente un titolo di proprietà su una quantità precisa dell’oro dello Stato, garantito dal Sovrano, e scambiabile con altre valute. È l’epoca del “Gold Standard”, finito con la Prima guerra mondiale e definitivamente archiviato, anche se in edizione riaggiornata, nel 1971 con la fine del dollar standard, che garantiva la convertibilità di ogni valuta in oro attraverso i dollari. Da quel momento in poi la quantità di moneta di circolazione non è più legata all’oro posseduto dalle banche centrali. Le banconote in sé sono diventate riserva di valore.

Ora, perché, si chiede Rossi, nonostante ciò, i caveau della Banca d’Italia e di molte altre banche centrali sono pieni d’oro? Perché, nel momento in cui la moneta diventa banconota non convertibile in oro, dunque un foglio di carta con valore intrinseco, ma senza nessuna materialità, l’oro dei caveau acquisisce una funzione di riserva simbolica. I materialissimi lingotti di Palazzo Koch a questo punto valgono soprattutto per il loro immateriale significato simbolico.

Simbolico perché, per quanto l’Italia abbia quasi il 10% delle riserve auree mondiali, il loro valore (circa 91 miliardi) è di entità non significativa rispetto alla dimensione delle attività economiche oggi. Il debito pubblico del nostro Paese supera i 2.300 miliardi di euro. E simbolico perché non potrebbe essere venduto. La quantità di oro disponibile sul mercato è poca. Se venissero riversate le 2.450 tonnellate di oro italiano, il prezzo e dunque il suo valore effettivo, crollerebbe. Per questa ragione, dopo un goffo tentativo della Banca d’Inghilterra di vendere buona parte del proprio oro nel 1999, che ne fece crollare il prezzo, le Banche Centrali si sono accordate per tenere le proprie riserve e non venderle.

Nel trattato di costituzione della banca centrale Europea uno dei punti fondamentali è il conferimento di una parte delle riserve auree delle banche centrali nazionali, parte dell’eurosistema. Il che dimostra quanto sia ancora importante questo valore simbolico.

Il libro di Rossi esplora anche il significato più ampio dell’oro come denaro e strumento di ricchezza e il suo ruolo nell’evoluzione della società e dei sistemi economici moderni. Dice Rossi: «Credito, assicurazione e denaro hanno insegnato all’uomo, all’inizio della sua storia, a pensare il divenire del tempo».

Il ruolo fondamentale che denaro e ricchezza, come risparmio e investimento, hanno nel generare lo sviluppo nel tempo della società. Se l’oro della fede che portate al dito potrebbe avere 2000 anni, si può ben capire perché la materialità/immaterialità di questo metallo sia davvero la sintesi migliore di questo processo evolutivo.

Lascia un commento