Filoni esauriti

Nell’industria dell’oro sono davvero tempi duri, anche per i giganti. Le minerarie aurifere senza dubbio hanno commesso molti errori nel passato, ma oggi che hanno cominciato a rigare dritto si trovano a confrontarsi con sfide inedite, su cui non hanno nessun controllo. Il problema principale non è la debolezza del prezzo del lingotto, che pure è destinata a pesare, se non ci sarà un’inversione di tendenza, ma potrebbe essere la geologia. E decisamente non è facile opporsi a Madre Natura.

Le miniere d’oro più grandi si stanno esaurendo e da molto tempo, nonostante l’impiego di grandi capitali, non sono più stati trovati nuovi depositi sufficienti a sostituirle. I risultati cominciano a vedersi: per la prima volta dal 2008 la produzione mineraria del metallo ha smesso di crescere. L’output nel 2017 è stato di 3.269 tonnellate secondo il World Gold Council, comunque un record storico, ma in aumento di appena lo 0,2% rispetto all’anno precedente. E il timore è che la situazione non sia destinata a migliorare. Alcuni analisti (e anche qualche dirigente del settore) prevedono un declino della produzione aurifera, che potrebbe durare per anni se non per sempre: una sorta di «picco dell’oro», per mutuare un’espressione coniata nel settore petrolifero, o quanto meno il raggiungimento di un «plateau» della produzione mineraria.

Ovviamente il caso dell’oro è diverso da quello del petrolio: il metallo non viene “bruciato” per sempre con l’impiego, ma solo trasformato, e nel mondo – tra caveaux, cassette di sicurezza e portagioie nelle nostre case – si calcola che ci siano in giro scorte per oltre 190mila tonnellate. Ma dal punto di vista delle società aurifere (e degli investitori interessati al settore) la situazione è molto preoccupante.

Nell’ultimo decennio, secondo uno studio di Standard & Poors’, sono state scoperte solo 41 miniere d’oro di dimensioni rilevanti, per un totale di 215,5 milioni di once: un risultato che impallidisce di fronte ai successi di un tempo. Tra il 1990 e il 2007 le scoperte erano state 222, per un totale di 1,73 miliardi di once. Si è investito troppo poco? Al contrario. Anche se oggi le società aurifere sono più disciplinate e hanno ridotto i budget rispetto al picco del 2012, la spesa in esplorazioni negli ultimi dieci anni è stata di 54,3 miliardi di dollari, il 60% in più rispetto ai 32,2 miliardi spesi – con successi incomparabili – nei 18 anni precedenti.

I costi sono aumentati, si dirà. E in parte è vero. Ma anche su questo fronte le società aurifere sono diventate molto più oculate: Barrick, forse la più diligente di tutti, riesce a produrre oro al costo (tutto compreso) di appena 856 dollari l’oncia. Anche gli altri hanno fatto enormi progressi: il cosiddetto costo «all-in» – parametro oggi molto in voga, che considera tutte le voci, dall’esplorazione per trovare nuove risorse alla vendita dell’oro – è sceso in media a 934 $/oncia nel settore, da 1.199 $ nel secondo trimestre 2013, stima Bloomberg Intelligence.

Poiché di solito trascorrono circa vent’anni da quando si scopre una nuova vena aurifera a quando si avvia l’estrazione di oro, la mancanza di scoperte rischia di pesare sempre di più in futuro. Come se non bastasse, anche la qualità delle riserve aurifere sta peggiorando. Negli anni ’60 da ogni tonnellata di roccia estratta in miniera si recuperavano oltre 10 grammi di oro, ricorda Bloomberg. Oggi i cinque big del settore – Barrick, Newmont, AngloGold Ashanti, Goldcorp e Newcrest – riescono a ricavare appena 1,12 grammi per tonnellata. E va già bene, perché cinque anni fa la “resa” era crollata a 1,04 grammi (dieci anni fa era di 1,42 grammi). Con meno di un grammo per tonnellata probabilmente nessuna miniera d’oro riesce a fare profitti. A maggior ragione se il prezzo del metallo continuerà a scendere.

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