Benvenuto Cellini

Benvenuto Cellini 

Giovinezza

Benvenuto Cellini nacque il 3 novembre 1500 a Firenze; una lapide dettata da Giuseppe Mellini indica il luogo preciso dove il Cellini ebbe i natali, al n. 4 di via Chiara, nella zona di Mercato Nuovo. La madre era la fiorentina Elisabetta Granacci; il padre, invece, era Giovanni d’Andrea di Cristofano, un suonatore di strumenti musicali e intagliatore d’avorio che si cimentava nella costruzione di viole, arpe e liuti a detta del figlio «bellissime et eccellentissime», e di «maravigliosi» organi e clavicembali ricordati sempre da Benvenuto come «i migliori e più belli che allora si vedessino».[1]

Già in «tenerissima» età il padre, che tra l’altro faceva parte del gruppo dei pifferi di Firenze, cercava di avviare il figlioletto allo studio della musica, affinché divenisse «gran sonatore». Grazie agli insegnamenti di papà Giovanni, e soprattutto dell’organista fiorentino Francesco dell’Aiolle, Cellini – nonostante la malavoglia – rivelò doti musicali notevoli, in particolare nel flauto e nel cornetto. Questa, tuttavia, si trattava di una dedizione indotta più che spontanea, tanto che le ambizioni del giovane Benvenuto non erano rivolte ad eccellere in quello che ormai definiva «maledetto sonare»,[2] bensì a divenire «primo homo del mondo» nel campo dell’arte orafa. Per questo motivo, a partire dal 1513, il giovane Cellini frequentò nella sua città natale la bottega dell’orafo e armaiolo Michelangelo Bandinelli,[3] per poi passare due anni dopo sotto la guida di Antonio di Sandro, detto Marcone, «bonissimo praticone, e molto uomo dabbene, altiero e libero in ogni cosa sua».[4]

Botteghe d’orafi e tafferugli

Cellini manifestò bruscamente la propria indole irrequieta e violenta già a sedici anni, nell’anno 1516: in seguito a una rissa, infatti, fu esiliato insieme al fratello Cecchino a Siena, dove soggiornò per «molti mesi» studiando oreficeria nella bottega di Francesco Castoro.[5] Ritornato a Firenze, per desiderio del padre Benvenuto si recò a Bologna per perfezionare «il sonare»; pur assecondando le volontà paterne, nella città felsinea Cellini riuscì ad attendere all’amata oreficeria, lavorando dapprima con Ercole del Piffero, quindi con un israelita, tale Graziadio, e infine con il miniatore bolognese Scipione Cavalletti.[6] Dopo un’affrettata sosta a Firenze, donde fuggi a causa delle insistenze del padre per la musica, nel 1517 Cellini proseguì la sua formazione da orafo nella bottega dell’orafo Ulivieri della Chiostra, a Pisa, dove si applicò anche allo studio di opere antiche.[7]

«Voltomi subito e veduto che lui [Gherardo Guasconi, n.d.r.] se ne rise, gli menai sì grande il pugnio in una tempia, che svenuto cadde come morto; di poi voltomi ai sua sua cugini, dissi: “Così si trattano i ladri poltroni vostri pari”; e volendo lor fare alcuna dimostrazione, perché assai erano, io, che mi trovavo infiammato, messi mano a un piccol coltello che io avevo, dicendo cosí: “Chi di voi esca della sua bottega, l’altro corra per il confessoro, perché il medico non ci arà che fare”. Furno le parole a loro di tanto spavento, che nessuno si mosse a l’aiuto del cugino»
— Benvenuto Cellini, Vita

Dopo un accesso di febbre, Cellini si recò nuovamente a Firenze, dove ritornò a lavorare per Antonio di Sandro, grazie al quale conobbe anche lo scultore Pietro Torrigiano; in seguito, si legò a stretta amicizia con un altro orafo, Francesco Salimbene, con il quale «molto bene guadagnava, e molto si affaticava a ‘mparare». Nuove risse e tafferugli costrinsero Cellini a spostarsi nuovamente: cercò rifugio dapprima a Siena, e poi a Roma, dove lo ritroviamo dal 1519 al 1520 a lavorare come garzone presso Firenzuola de’ Georgis e, successivamente, Paolo Arsago. Dal 1521 al 1523, ai richiami del padre Cellini rimpatriò a Firenze, dove lavorò dapprima con Salimbene, e poi con Giambattista Sogliani, che «piacevolmente [gli] accomodò di una parte della sua bottega, quale era in sul canto di Mercato Nuovo».

Alla fine del 1523 il temperamento impetuoso del Cellini si manifestò di nuovo: a questo periodo, infatti, risalgono i dissapori con i Guasconti, una famiglia di orafi fiorentina a lui ostile per pura e semplice invidia. «Non conoscendo di che colore la paura si fosse», Cellini ferì con un pugnale Gherardo Guasconti e Bartolomeo Benvenuti, che ne prese le difese. Questa rissa procurò al Cellini la condanna a morte in contumacia, a causa della quale fuggì a Roma; nell’Urbe il giovane Benvenuto venne accolto nella bottega di Lucagnolo da Iesi, dove iniziò a produrre gioielli autonomamente (notevoli i due candelieri per il vescovo di Salamanca e il gioiello per la moglie di Sigismondo Chigi), per poi passare nel 1524 presso Giovan Francesco della Tacca.[8]

Al servizio dei Medici 

Cellini venne calorosamente accolto dalla corte medicea. Cosimo I de’ Medici, infatti, lo elevò a scultore di corte assicurandogli un signorile soggiorno in una casa a via del Rosario, dove lo scultore impiantò la propria fonderia,[28] e assegnandogli uno stipendio annuo di duecento scudi; gli commissionò, inoltre, la realizzazione di due importanti sculture bronzee: il proprio busto e il gruppo del Perseo con la testa di Medusa, da collocare nella loggia dei Lanzi.

Cellini fuse il busto di Cosimo de’ Medici nel 1546, dopo essersi momentaneamente allontanato da Firenze per sfuggire all’accusa di sodomia (riparò a Venezia, ove incontrò Tiziano).[29] La gestazione del Perseo, invece, fu molto più ardua, a causa di numerose difficoltà incontrate durante la fusione del metallo, ma Cellini riuscì comunque a inaugurare la statua nell’aprile 1554, suscitando un’accoglienza molto calorosa. Tra gli altri interventi celliniani di questo periodo, si citano il restauro di un antico Ganimede e l’avvio del Narciso in marmo (1548-49), l’esecuzione delle statuette bronzee di Giove, Danae con Perseo fanciullo, Minerva, Mercurio, collocate nella base del Perseo (1552),[30] e la fortificazione di due porte della cerchia di Firenze (1553-54).[31]

«Tutti gli uomini di ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propria mano descrivere la loro vita»
— Benvenuto Cellini, Vita, proemio

Dopo il trionfo del Perseo, tuttavia, Cellini fu costretto all’inoperosità, a causa della posizione di preminenza assunta dai rivali Bandinelli e Ammannati nella scena artistica fiorentina; quest’ultimi si erano recentemente imposti non per particolari meriti scultorei, bensì perché maggiormente sottomessi alla rigorosa etichetta medicea. Furono queste le circostanze che portarono alla gestazione della Vita: non potendo più «fare», infatti, Cellini iniziò a «dire», mettendo per iscritto la propria concezione dell’arte ma, soprattutto, il proprio vissuto esistenziale, così da segnalare a Cosimo de’ Medici il valore di quell’artista impedito a operare. Fu così che Cellini iniziò nel 1558 la stesura della Vita, opera letteraria che – dopo una breve interruzione nel 1562, dovuta alla rinunzia degli ordini ecclesiastici, alle nozze con Piera de’ Parigi e alla nascita di un figlio – venne terminata nel 1567. Questa cocente delusione venne inasprita ulteriormente dalle diverse disavventure giudiziarie: nel 1556, infatti, venne incarcerato per aver percosso l’orafo Giovanni di Lorenzo, mentre l’anno successivo venne condannato a cinquanta scudi di multa e a quattro anni di carcere (commutati poi in quattro anni di arresti domiciliari) perché durante «cinque anni […] ha tenuto […] Fernando di Giovanni di Montepulciano […] in letto come sua moglie».

A lato della Vita, in ogni caso, nel suo ultimo decennio di vita si cimentò anche nella stesura del Trattato dell’oreficeria e del Trattato della scultura, iniziata nel 1565 e terminata tre anni dopo, quando le due opere vennero date alle stampe.

Benvenuto Cellini, infine, morì a Firenze il 13 febbraio 1571; poco prima del decesso, fece dono di tutte le sue sculture «finite et non finite» a Francesco I de’ Medici.

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